
La cultura del surf
Estate, mare, bikini, occhiali da sole, abbronzatura, vita da spiaggia e in sottofondo qualche canzone dei Beach boys… la SURF LIFE!
È questa l’immagine comunemente associata ad uno sport ormai molto diffuso in Italia e nel mondo, praticato in oltre 500 paesi da persone di ogni età, uomini e donne, soprattutto alle Hawaii, in California, in Australia e in Nuova Zelanda… i paradisi del surf per antonomasia, mete interessate da un turismo dedicato, alla ricerca dell’onda perfetta!
Eppure dietro a questo cliché, a ciò che il marketing ci mostra del surf, c’è molto di più, tutto un mondo da scoprire.
Non solo uno sport…
Prima di tutto il surf non è semplicemente uno sport, certo ci sono i surfisti occasionali per cui resta tale, ma per moltissime altre persone il surf è molto di più, una vera sottocultura che porta con sé un proprio stile di vita.
I surfisti hanno un gergo specifico, proprie mode e correnti artistiche, esiste una letteratura dedicata, ma la surf life ha influenzato anche la nascita di numerosi film ed un genere musicale: la surf music, che contrariamente a quanto comunemente si crede, non è nata con i Beach boys, anche se il loro gruppo è diventato un’icona diffondendo musica a tema surf.
La surf music, nota anche come surf rock e surf pop, è un genere di musica rock che deriva dal rock & roll americano di inizio anni ’60 ed è strettamente legata alla cultura del surf, diffusissima in quel periodo sulle spiagge della California meridionale. La prima ondata di surf music era quasi rigorosamente strumentale e fu lanciata da Dick Dale col suo singolo Let’s Go Trippin’. Il pezzo ebbe successo, anche se localmente, e ispirò molte altre band esordienti, come The Chantays e Surfaris. Dick Dale definiva il surf rock come la sensazione di praticare il surf, trasportata in musica.
I Beach Boys poi ebbero un successo planetario con uno stile diverso, ispirato al R&B, con armonie vocali, testi a tema surf e vita da spiaggia, si parla di “beach-song”, uno stile strettamente connesso ma distinto dal surf strumentale.
Negli anni sessanta, il mondo della “surf life” spopolò anche nella cinematografia con la produzione di pellicole come: The Endless Summer, Blue Hawaii (con la partecipazione di Elvis Presley), The Big Surf e molte altre fino ai celebri Mercoledì da Leoni e Point Break.

Il sound della surf music fu un’ispirazione per i chitarristi degli anni sessanta ed il genere tornò popolare anche negli anni novanta, grazie ad alcune band, come Jon and the Nightriders, che ripercorsero la strada dei loro predecessori, dando vita a un Surf Revival. Tutto questo grazie anche al successo di film come Pulp Fiction, con una colonna sonora composta da classici del surf anni ’60, proprio come il successo di Dick Dale, Misirlou.
Le correnti artistiche ed in particolare i film portarono alla luce lo stile di vita alternativo e controcorrente dei surfisti, fatto non solo di spiagge e grandi feste, ma anche di continui viaggi con l’unico scopo di trovare l’onda perfetta, alla ricerca di quella sensazione di libertà e potere che tutt’oggi muove milioni di appassionati in tutto il mondo.
Storia del surf
“Mentre osservavo quell’indigeno penetrare su una piccola canoa le lunghe onde a largo di Matavai Point, non potevo fare a meno di concludere che quell’uomo provasse la più sublime delle emozioni nel sentirsi trascinare con tale velocità dal mare”
James Cook
Queste le parole scritte dall’esploratore europeo James Cook sul proprio diario di bordo in ricordo della prima volta in cui conobbe il surf visitando l’isola di Tahiti. Era il dicembre 1777 quando rimase affascinato nel vedere un indigeno scivolare sulle onde dell’oceano con la sua canoa di legno.
Successivamente, spostandosi alle Hawaii, Cook notò qualcosa di diverso e ancor più sorprendente: i reali dell’isola scivolavano sull’acqua in piedi su enormi tavole lunghe circa cinque metri e mezzo con un peso di oltre 70 chili.
La sensazione di libertà e quel legame tra uomo e natura lo colpirono, si trovava davanti ad un’antica usanza fino ad allora sconosciuta nel resto del mondo.
Non si sa con certezza quando i Polinesiani iniziarono a praticare questo sport, ma alcuni canti hawaiiani risalenti al quindicesimo secolo raccontano storie legate al surf dimostrando che già allora si tenevano perfino delle competizioni, durante le quali si sfidavano Re e capi di alto rango sociale. Le scommesse erano una componente fondamentale e più le onde raggiungevano dimensioni impressionanti, più le scommesse diventavano importanti e oltre alle proprietà personali, si mettevano in gioco orgoglio ed onore.
Gli Ali’i (i Re hawaiiani) sostenevano di essere i più abili nella pratica del surf che era una passione, una tradizione e anche la loro principale forma di addestramento per mantenere la forma fisica richiesta dalla loro posizione sociale. Avevano spiagge personali in cui surfavano e nessuno osava entrare in acqua con loro.
Anticamente alle Hawaii le persone comuni che sapevano surfare godevano di speciali privilegi e guadagnavano lo status di “capi” in base alla loro capacità e resistenza fisica.
La tradizionale costruzione delle tavole veniva sempre accompagnata da precisi rituali e cerimonie: dopo aver scelto l’albero giusto, ad esempio, prima del taglio veniva offerto alla terra un pesce in segno di riconoscimento, quindi il tronco veniva accuratamente ripulito dai rami e sagomato con il solo aiuto di strumenti naturali fatti di pietra e ossa.
Poi veniva trasportato in un luogo riparato dove si custodivano le canoe, lí avveniva il vero e proprio lavoro di sagomatura e la rifinitura della tavola.
In questa fase le superfici delle tavole venivano perfettamente levigate usando il corallo ed una pietra ruvida chiamata ‘oahi’. La finitura avveniva spalmando la tavola con la stessa sostanza scura usata anche per laccare le canoe; era fatta con la cenere, il succo di una pianta grassa, il succo della parte interna di una radice e dei germogli di banano. Uno strato finale di olio di noci di kukui dava la perfetta impermeabilità.
L’importanza del surf alle Hawaii conobbe una fase di declino durante il diciannovesimo secolo, per un insieme di circostanze diverse. In parte perché i missionari cristiani ne scoraggiarono la pratica ritenendolo una distrazione pericolosa; in parte per la crescente attrazione degli hawaiiani per le nuove culture con cui entravano in contatto; ma anche per il loro sempre minor tempo libero dovuto ai nuovi sistemi lavorativi e per l’arrivo di nuove malattie portate sulle isole dai colonizzatori. Gli indigeni non avevano difese immunitarie adeguate, essendo per loro sconosciute e ne vennero decimati.
Nel 1819 venne interrotto il Makahiki, una festa annuale che durava ben 3 mesi (da metà ottobre a metà gennaio) e corrispondeva all’arrivo delle grandi onde invernali. Gli hawaiiani per l’occasione fermavano ogni lavoro o attività per festeggiare con musica, danze, canti e tornei di tutti gli sport hawaiiani. Oggi questa festa viene ricordata con la celebrazione della “settimana Aloha”.
Il surf ebbe una breve ripresa durante il regno del Re Kalakaua (1874-1891), che si batté per recuperare l’antica cultura hawaiiana, incoraggiandone ogni forma d’espressione dalla danza hula, ai canti, al surf.
A questo periodo, risale l’arrivo del surf sulle coste californiane.
Venne introdotto da alcuni allievi hawaiani delle scuole militari americane che, dopo aver fabbricato delle tavole di sequoia, nel tempo libero iniziarono a surfare abilmente sulle onde della costa, sotto gli occhi stupiti e ammaliati della gente del posto.
Alla fine degli anni venti le Hawaii iniziarono ad essere frequentate dai pochi turisti che potevano permettersi il viaggio. In quel periodo Rabbit Kekai dette il suo importante contributo all’evoluzione del surf, inventando un nuovo stile chiamato Hot Dogging che permetteva ai surfisti di cavalcare la parete dell’onda con manovre strette ed elaborate, rese possibili grazie all’utilizzo di tavole notevolmente più corte (poco meno di due metri).
La diffusione del surf subì un nuovo rallentamento con l’avvento della seconda guerra mondiale.
Finita la guerra, il surf ebbe la sua grande rivincita: in America spopolò in pochissimi anni e venne consacrato con la prima gara internazionale, a Makaha nel 1957. Un evento che segnò la storia del surf moderno gettando le basi per tecniche e stili ancora attuali.
Per secoli gli Hawaiiani avevano conservato il surf per sé, adesso finalmente il mondo intero poteva conoscerne il fascino.
La prima rivista stampata dedicata, Surfing Magazine, fu fondata nel 1960.

Camicette hawaiiane e gruppi musicali surf divennero molto popolari e dagli anni settanta, il surf iniziò ad essere considerato oltre che uno sport, uno stile di vita. Il surf era parte della controcultura. Erano gli anni della gioventù inquieta che metteva in discussione questioni fondamentali come il moralismo, l’autorità, le ideologie… l’intero sistema. La cultura hippie, gli allucinogeni, il misticismo neo-orientale… Un vero e proprio “movimento dei surfisti” però non è mai esistito. Nulla di organizzato o strutturato, solo un istinto viscerale alla ribellione.
Il surf come stile di vita
Nell’antica società polinesiana il surf era intrecciato con ogni aspetto della vita quotidiana: la famiglia, il lavoro, la guerra, la religione. Surfavano le donne, i sacerdoti e i re, il surf è ancora così è uno stile di vita per tutti, chiunque può farlo proprio.
Certo ha le sue regole, non è per niente semplice e certe volte diventa anche fazioso.
Ci sono i veterani che impongono le loro leggi ai novizi, i fanatici della longboard, i sostenitori della shortboard, quelli che «il vero surfista non gareggia mai» e quelli che vivono in continua competizione.
In ogni caso il mare è di tutti e il surf per i surfisti non è uno sport estivo da praticare con il sole su bianche spiagge da sogno raggiunte con furgoncini hippie coloratissimi e personalizzati, magari circondati da ragazzi scolpiti e belle ragazze in bikini… non è solo questo anzi, il surf si pratica tutto l’anno spesso più in inverno, dato che ha bisogno di onde e non di mare piatto.
È fatto di vento e di acqua gelida, di orecchie intirizzite per il freddo, di fitte alla testa per lo sbalzo termico e di lividi.

Solitudine, pazienza, pericolo.
Perché?
Perché aspettare con una tavola in mezzo ad un mare in tempesta l’arrivo di quell’onda perfetta?
Perché quella voglia di affrontare una forza tanto più grande di te da farti sentire un essere minuscolo, quell’onda che oggettivamente potrebbe farti a pezzi?
Sembra incomprensibile eppure il surfista accetta tutto questo: si arma di pazienza e attende, poi affronta il pericolo per trasformare quei pochi secondi in una piccola, breve forma d’arte per molti senza senso.
Perché i surfisti fanno quello che fanno? Per le emozioni che il surf sa regalare.
La verità è che la pratica stessa del surf ha in sé il seme della ribellione e quell’esigenza di libertà che spinge il surfista a sfogare questa voglia primitiva attraverso una sfida con se stesso.
In un articolo del ‘61 Life parlava esplicitamente di «dipendenza da surf».
Dennis Aaberg, cosceneggiatore del film Un mercoledì da leoni, ammise: «Le onde arrivano da chissà dove, si materializzano sulla costa e si infrangono velocemente, sparendo nel nulla. Rincorrere questi miraggi è una completa perdita di tempo, ed è quello che ho deciso di fare della mia vita».
Nell’era del pragmatismo, della vita come continua corsa alla ricerca di efficienza, il surfista è un simbolo di uno stile di vita controcorrente, perché con il proprio innato spirito di ribellione si concede il lusso di questo spreco di tempo alla ricerca di un attimo di pura emozione che dia un senso a tutto.
Il surf diventa maestro di concetti base come il rapporto tra uomo e natura, l’irreversibilità del tempo, la necessità di contare soprattutto su se stessi. L’importanza del coraggio, del silenzio e della solitudine. Una conquista da non sottovalutare.
Al mare puoi andare con amici, ma quando sei in acqua di fronte a quell’onda sei fondamentalmente solo. Ci vuole una buona dose di energia interiore per sopportare lo stile di vita di un surfista.

Ogni onda è diversa, il surf è una lunga attesa dell’onda giusta, di quel momento di disublime emozione, di quell’occasione da cui devi farti trovare pronto, imparando a coglierne i segnali, un surfista tutto questo lo sa, ne fa esperienza continuamente e sa che ad ogni caduta dovrà trovare la forza di rialzarsi ed il coraggio di rischiare e riprovare, perché ognuna di quelle onde perse non tornerà.
Le onde come metafora della vita.
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